A ridosso di Turnè, Salvatores comincia a lavorare a Mediterraneo, terza pellicola consecutiva prodotta da Minervini e film che varrà al regista il premio Oscar come Miglior Film Straniero del 1991.
Si
tratta di nuovo di una scampagnata maschile, una cameratesca vacanza
generazionale (otto soldati che Montini descrive “più o meno in
quell’età in cui non hai ancora deciso se mettere su famiglia o
perderti per il mondo”) in cui il gruppo (che in Marrakech
doveva ri-costituirsi) deve costituirsi ex novo, come il paese
dall’altra parte del mare lacerato dalla guerra.
Mediterraneo
racconta la storia di una guerra
dalla quale la guerra è esclusa, mette sullo schermo delle
dinamiche di gruppo di soldati in un contesto diverso da quello
abituale, e lo fa con un progressivo svuotamento delle
caratteristiche tipiche del war movie: l’allontanamento del
conflitto e delle armi, lo sgretolamento delle gerarchie militari, la
chiave comica con cui vengono smontati gli episodi bellici
(l’uccisione dell’asina, l’aggressione da parte di un “plotone”
di galline, la gag delle parole d’ordine) e più di tutto,
nell’inversione del logico epilogo della guerra: non la morte, ma
la rinascita, con l’amore tra Farina e Vassilissa.
È
comunque un film di guerra, contro la guerra, ponendo in rilievo le
difficoltà per lo sradicamento della propria patria unendo il tutto
allo spettacolo e alla bellezza della natura.
Il
film appare come una “storia”, all'apparenza discostata dai temi
generazionali a cui ci ha abituati Salvatores, ma ha comunque le
varie facce di una generazione che va dai trenta ai quaranta anni.
La
voglia di fuga di un gruppo di uomini che loro mal grado sono
costretti ad una guerra di cui sono poco convinti, è la chiave di
lettura di questo film fuori schema di Salvatores, che è
raffinato e sobrio soprattutto in termini di equilibri tra i
contenuti e lo stile del racconto. La narrazione drammatica e
intercalata da piccole brillanti interpretazioni, è condotta con
molta maestria tanto da far risaltare personaggi e situazioni nel
bianco accecante di questa isola greca1.
L'isola fornisce infatti una cornice ambientale abbastanza forte e
vincolante da orientare lo sviluppo dell'azione verso percorsi più o
meno obbligati (il naufragio, la lotta per la sopravvivenza,
l'incontro-scontro con gli eventuali isolani, la fuga per mare),
articolando sul piano simbolico poche grandi opposizioni:
sacro/profano, natura/cultura2.
Attraverso
questa storia (e all’epilogo, ambientato nel presente, vale a dire
il futuro dei protagonisti) Salvatores racconta i sogni di una
generazione che ha combattuto per la liberazione dell’Italia e che
ha avuto (o creduto di avere) la possibilità di ricostruirla da
zero. Ma è una generazione che al suo rientro si scontra con
l’impossibilità di cambiare il vecchio, concetto che è racchiuso
nella frase che Lo Russo (Diego Abatantuono) pronuncia al suo ritorno
sull’isola: “Non ci hanno lasciato cambiare niente. Allora ho
detto: avete vinto voi, ma almeno non riuscirete a considerarmi
vostro complice.” Questa frase (assieme all’epigrafe iniziale
e alla dedica finale) ha contribuito a creare il mito di Salvatores
come il regista della fuga, a definire Mediterraneo come
l’epilogo della trilogia della fuga: probabilmente più che alla
fuga, questo film fa riferimento alla sconfitta. Dice il regista in
un'intervista:
Mediterraneo,
in particolare, è un film sulla fuga. La mia generazione, quella
cioè dei trenta-quarantenni, di fughe ne ha fatte tante nella sua
storia. Negli anni Sessanta è fuggita dal conformismo, ad esempio;
nei Settanta, dalla normalità addirittura; e sul loro finire dalla
politica, troppo. Poi è fuggita con la droga in tutti i modi in cui
si poteva fuggire.
Ma
non è una fuga come rifiuto delle responsabilità, quella di cui
parla il film: c'è questa ambiguità, in una vicenda ambientata
nella seconda guerra mondiale, 1941, ma che io spero riesca a parlare
di noi. La guerra è da vedere solo in termini metaforici: è appunto
la situazione-limite. Ma i personaggi parlano, con un linguaggio
assolutamente contemporaneo, di problemi nostri.
Per
me era molto importante il fatto di prendere gli attori e portarli su
di un'isola molto lontana, perché volevo che facessero lo stesso
tipo di esperienza dei loro personaggi: infatti così è stato, con
crisi anche pesanti da parte di alcuni di loro, all'inizio.3
Salvatores
mira a recuperare la sospensione del tempo, l'atmosfera di
incantamento che avvolge i protagonisti e li estranea. La sua è una
visione ottimistica, “consolatoria”, è stato detto: «il suo
mondo
dell'utopia
è un mondo che dimentica la guerra e ritrova un senso panico della
felicità del vivere»4.
Quanto
al legame con i due film precedenti, è forse più corretto dire che
le tre pellicole “sfregano” letteralmente l’una contro l’altra,
anche a causa dell’assenza di grossi intervalli tra le loro
riprese. I tre film si passano attori, sceneggiatori, tecnici,
«restano impigliati l’uno nell’altro, ma non sono una trilogia,
[...] non producono un discorso coerentemente unitario e progressivo,
né sono la diversa declinazione di uno stesso tema, la triplice
scrittura di uno stesso argomento»5.
Fonti:
1RITA
PLEBENI, Mediterraneo, «Schede
Film E Video», a cura di Eliana Vona,
Roma, Cinecircoli giovanili socio-culturali, 1991.
4MIRELLA
POGGIALINI, “Film discussi insieme 1991”, Centro
Culturale San Fedele, Milano,1991.
5LUCA
MALAVASI, Gabriele Salvatores, cit., pag. 77.

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