martedì 10 gennaio 2012

Mediterraneo: il capolavoro da Oscar di Gabriele Salvatores



A ridosso di Turnè, Salvatores comincia a lavorare a Mediterraneo, terza pellicola consecutiva prodotta da Minervini e film che varrà al regista il premio Oscar come Miglior Film Straniero del 1991.
Si tratta di nuovo di una scampagnata maschile, una cameratesca vacanza generazionale (otto soldati che Montini descrive “più o meno in quell’età in cui non hai ancora deciso se mettere su famiglia o perderti per il mondo”) in cui il gruppo (che in Marrakech doveva ri-costituirsi) deve costituirsi ex novo, come il paese dall’altra parte del mare lacerato dalla guerra.
Mediterraneo racconta la storia di una guerra dalla quale la guerra è esclusa, mette sullo schermo delle dinamiche di gruppo di soldati in un contesto diverso da quello abituale, e lo fa con un progressivo svuotamento delle caratteristiche tipiche del war movie: l’allontanamento del conflitto e delle armi, lo sgretolamento delle gerarchie militari, la chiave comica con cui vengono smontati gli episodi bellici (l’uccisione dell’asina, l’aggressione da parte di un “plotone” di galline, la gag delle parole d’ordine) e più di tutto, nell’inversione del logico epilogo della guerra: non la morte, ma la rinascita, con l’amore tra Farina e Vassilissa.
È comunque un film di guerra, contro la guerra, ponendo in rilievo le difficoltà per lo sradicamento della propria patria unendo il tutto allo spettacolo e alla bellezza della natura.
Il film appare come una “storia”, all'apparenza discostata dai temi generazionali a cui ci ha abituati Salvatores, ma ha comunque le varie facce di una generazione che va dai trenta ai quaranta anni.
La voglia di fuga di un gruppo di uomini che loro mal grado sono costretti ad una guerra di cui sono poco convinti, è la chiave di lettura di questo film fuori schema di Salvatores, che è raffinato e sobrio soprattutto in termini di equilibri tra i contenuti e lo stile del racconto. La narrazione drammatica e intercalata da piccole brillanti interpretazioni, è condotta con molta maestria tanto da far risaltare personaggi e situazioni nel bianco accecante di questa isola greca1. L'isola fornisce infatti una cornice ambientale abbastanza forte e vincolante da orientare lo sviluppo dell'azione verso percorsi più o meno obbligati (il naufragio, la lotta per la sopravvivenza, l'incontro-scontro con gli eventuali isolani, la fuga per mare), articolando sul piano simbolico poche grandi opposizioni: sacro/profano, natura/cultura2.
Attraverso questa storia (e all’epilogo, ambientato nel presente, vale a dire il futuro dei protagonisti) Salvatores racconta i sogni di una generazione che ha combattuto per la liberazione dell’Italia e che ha avuto (o creduto di avere) la possibilità di ricostruirla da zero. Ma è una generazione che al suo rientro si scontra con l’impossibilità di cambiare il vecchio, concetto che è racchiuso nella frase che Lo Russo (Diego Abatantuono) pronuncia al suo ritorno sull’isola: “Non ci hanno lasciato cambiare niente. Allora ho detto: avete vinto voi, ma almeno non riuscirete a considerarmi vostro complice.” Questa frase (assieme all’epigrafe iniziale e alla dedica finale) ha contribuito a creare il mito di Salvatores come il regista della fuga, a definire Mediterraneo come l’epilogo della trilogia della fuga: probabilmente più che alla fuga, questo film fa riferimento alla sconfitta. Dice il regista in un'intervista:

Mediterraneo, in particolare, è un film sulla fuga. La mia generazione, quella cioè dei trenta-quarantenni, di fughe ne ha fatte tante nella sua storia. Negli anni Sessanta è fuggita dal conformismo, ad esempio; nei Settanta, dalla normalità addirittura; e sul loro finire dalla politica, troppo. Poi è fuggita con la droga in tutti i modi in cui si poteva fuggire.
Ma non è una fuga come rifiuto delle responsabilità, quella di cui parla il film: c'è questa ambiguità, in una vicenda ambientata nella seconda guerra mondiale, 1941, ma che io spero riesca a parlare di noi. La guerra è da vedere solo in termini metaforici: è appunto la situazione-limite. Ma i personaggi parlano, con un linguaggio assolutamente contemporaneo, di problemi nostri.
Per me era molto importante il fatto di prendere gli attori e portarli su di un'isola molto lontana, perché volevo che facessero lo stesso tipo di esperienza dei loro personaggi: infatti così è stato, con crisi anche pesanti da parte di alcuni di loro, all'inizio.3

Salvatores mira a recuperare la sospensione del tempo, l'atmosfera di incantamento che avvolge i protagonisti e li estranea. La sua è una visione ottimistica, “consolatoria”, è stato detto: «il suo mondo dell'utopia è un mondo che dimentica la guerra e ritrova un senso panico della felicità del vivere»4.
Quanto al legame con i due film precedenti, è forse più corretto dire che le tre pellicole “sfregano” letteralmente l’una contro l’altra, anche a causa dell’assenza di grossi intervalli tra le loro riprese. I tre film si passano attori, sceneggiatori, tecnici, «restano impigliati l’uno nell’altro, ma non sono una trilogia, [...] non producono un discorso coerentemente unitario e progressivo, né sono la diversa declinazione di uno stesso tema, la triplice scrittura di uno stesso argomento»5.

Fonti:
1RITA PLEBENI, Mediterraneo, «Schede Film E Video», a cura di Eliana Vona, Roma, Cinecircoli giovanili socio-culturali, 1991.
2MONICA D'ALASTA, Mediterraneo, «Cinema e Cinema», cit., Settembre-Dicembre, 1991.
3NUCCIO LODATO, Una generazione in fuga, «Cinema e Cinema», Settembre-Dicembre 1991, pag. 110.
4MIRELLA POGGIALINI, “Film discussi insieme 1991”, Centro Culturale San Fedele, Milano,1991.
5LUCA MALAVASI, Gabriele Salvatores, cit., pag. 77.

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