«Da un po’ di tempo cerco un filtro che mi permetta di raccontare la realtà allontanandomi sia dal realismo che dalla commedia» ha detto Salvatores in un’intervista rilasciata durante la promozione di Io non ho paura, «può essere un videogioco, un allucinogeno, una carie... Stavolta è il punto di vista di un bambino che ha dieci anni e mi costringe a tenere la macchina da presa a un metro e trenta da terra»1.
Il
racconto in prima persona, chiaro fin da quell’io presente nel
titolo, era già una caratteristica del romanzo da cui il film è
tratto: infatti dopo Puerto
Escondido
e Denti,
Io
non ho paura è
il terzo film di Salvatores ad essere tratto da un libro e uno dei
pochi a cui non ha messo mano alla sceneggiatura. Questa è stata
affidata all’autore del romanzo, Niccolò Ammaniti, e a Francesca
Marciano (che aveva collaborato con Salvatores per la sceneggiatura
di Turnè).
Uscito
nella primavera del 2003 e unico italiano in concorso al Festival del
Cinema di Berlino, Io
non ho paura si
apre con un’inquadratura molto simile a quella con cui inizia Sud:
la mdp si muove dal basso verso l’alto passando dalle profondità
della terra fino alla sua superficie e successivamente si alza sui
campi di grano. Con questa scena viene immediatamente rappresentata
la dicotomia che sarà al centro dell’attenzione per tutta la
durata del film, l’alternanza tra buio e luce, tra ciò che succede
sotto terra e ciò che accade sulla sua superficie: è lo stesso
regista che definisce questo film un punto d’incontro tra l’estrema
solarità delle sue prime opere e il viaggio nel “lato oscuro”
compiuto con film come Nirvana
e Denti3. Con Io non ho paura Salvatores cita esplicitamente il cinema americano con cui è cresciuto («non sono cresciuto con il cinema italiano, che ho scoperto dopo. Ho cominciato ad andare al cinema verso i sedici, diciassette anni e allora, nelle sale, si vedeva il cinema indipendente americano: il mio “imprinting” viene da lì, e sulle mie preferenze ha influito molto anche la passione per la musica rock. Il cinema italiano l’ho scoperto dopo, quando ho cominciato a progettare Sogno di una notte d’estate»4).
In questo film il regista milanese «reinventa un mondo agricolo, pre-industriale, quasi pasoliniano del Sud degli anni Settanta»5, dove una campagna rigogliosa e incontaminata è il contraltare delle praterie e dei paesaggi rurali che hanno affollato il grande schermo hollywoodiano.
Per l’equilibrio che esiste tra gli immensi paesaggi e i protagonisti che li popolano, si può definire un western molto nitido, dove la macchina da presa stacca numerosi primi piani dai piccoli protagonisti che si relazionano ad un ambiente per loro incommensurabile, quasi alieno; un paesaggio che viene fotografato con profondità, combinando linee orizzontali e verticali, primi piani e campi totali. In alcune interviste lo stesso Salvatores ha dichiarato di aver voluto regalare ai suoi piccoli protagonisti delle inquadrature da eroi. «Perché sono eroi della loro storia, del loro quotidiano. Mi piace rendere protagonisti coloro che non lo sono: regalare a due ragazzini inquadrature epiche come John Wayne»6.
Inoltre, la struttura narrativa classica del film e la distanza temporale creano un senso archetipico e metaforico della vicenda, rimandando chiaramente a un contesto mitico e favolistico (“favola nera” lo ha definito Marco Bertolino su “Cineforum”).
Giancarlo Basili, lo scenografo con cui Salvatores ha scelto le locations, ha detto di aver voluto rappresentare un “luogo non luogo”, un’astrazione assoluta nel contesto dell’ambiente.
La casa abbandonata in mezzo alle colline ricoperte di grano richiama un paesaggio ispirato alla pittura di Van Gogh, mentre il centro abitato dà l’idea di una piccola piazza polverosa, collocato in un nulla dove il cielo si staglia tra l’architettura delle case (a metà strada tra le piazze metafisiche di De Chirico e il precedente esperimento western di Salvatores, Sud)7.
Il piccolo universo in cui Michele cresce è retto da regole rigidissime e spesso incomprensibili: leggi di ordine temporale (non bisogna allontanarsi per troppo tempo da casa), gerarchico (dalla conta per chi deve andare a prendere il vino fino all’imposizione della presenza di Sergio nella sua cameretta) e infine chiaramente ostili, quando scoprirà il segreto dei grandi. A questo punto gli adulti assumono, ai suoi occhi, l’aspetto di orchi, con un’aggravante in più: i mostri non sono altri, ma gli stessi membri della sua famiglia8.
Un altro nuovo elemento che viene esplorato in questo film è quello del nucleo famigliare: abbozzata attraverso il rapporto padre/figlio (Jimi/Solo) in Nirvana, nella memoria di Antonio e usata per comprendere le sue problematiche in Denti, allargata e sessualmente trasversale in Amnèsia, con Io non ho paura la famiglia, e i suoi prolungamenti, diventa il luogo in cui Michele agisce per tutto il tempo del film, tanto da inserire in essa anche Filippo, attraverso la storia con la quale interpreta la realtà che lo sta circondando.
La famiglia si muove attorno a Michele con i modi più classici: la madre è molto dolce, ma riesce benissimo a farsi ascoltare e a volte ad arrabbiarsi (nel film viene meno il rapporto molto fisico e corporeo che nel libro c’è tra lei e il figlio); il padre avvolte è assente, ma è adorato dai figli con cui gioca spesso e a cui porta regali. Insomma, tutto è normale e anche le sfuriate rientrano in un ordinario rapporto tra genitori e figli.
Questa ordinarietà comincia a incrinarsi nel momento in cui Michele trova la pentola uguale a quelle che ha in casa. Non comprende tutto, per ora ha solo “brutti pensieri”, che però diventano ostilità nel momento in cui i genitori ospitano, in camera sua, Sergio(Abatantuono).
È da questo punto che gli adulti assumono agli occhi del protagonista l’aspetto di orchi. Tuttavia Salvatores non opera una divisione manichea tra buoni e cattivi: Michele non conosce il motivo del loro gesto e, anche nella seconda parte del film, non mancano momenti di forte legame tra genitori e figli.
Un altro elemento degno di nota è la forte attenzione rivolta agli animali (bisce, gufi, ricci) che fanno parte della fauna locale a cui è riservata una grande quantità di inquadrature ravvicinate, quasi la natura stessa fosse chiamata a testimone silenziosa degli avvenimenti. A un’analisi più attenta vediamo che questi animali compaiono ed esistono solo nelle scene in cui ci sono i bambini. Gli adulti fanno parte di un altro mondo, decisamente meno naturale e spontaneo dell’ecosistema in cui vivono e operano i protagonisti.
In molte scene, però, la natura è vista come elemento totalmente irrazionale, che ha una sua logica, ma che non può essere ordinata.
Andando a salvare Filippo, Michele si trasforma nel “corpo sacrificale” del racconto mitico e nella caverna (che come era già il buco, è la “madre terra”, utero, ma anche tomba) si sostituisce al suo alter ego. È ovvio che è il padre ad essere stato scelto dal fato per uccidere il bambino ed è altrettanto ovvio che in questo momento si espliciti la contrapposizione tra padre e figlio. Michele gli corre in contro non appena lo riconosce, Pino lo riconosce un attimo troppo tardi, dopo aver premuto il grilletto.
Nell’ultima scena c’è l’unione degli elementi tra sottosuolo, pianura e cielo: i bambini escono dai buchi, gli elicotteri scendono dal cielo, i mondi del giorno e della notte si fondono sotto la potente luce dei riflettori, e Michele, mentre si scioglie in un abbraccio riconciliatore con il padre/orco, tende la mano al proprio doppio, ormai definitivamente strappato all’oscurità.
Fonti:
1GABRIELE
SALVATORES in CRISTINA PATERNO’, Il mio thriller alla luce del
sole, intervista su www.cineuropa.org.
2GABRIELE
SALVATORES in FRANCESCO CINQUEMANI, Incontro con Gabriele
Salvatores, intervista su
www.intrattenimento.msn.it/.
3Cfr.
GABRIELE SALVATORES, intervista nel dvd del film Io non ho paura,
Medusa, Milano, 2003.
4GABRIELE
SALVATORES in LUCA MALAVASI, Gabriele Salvatores, Il Castoro,
Milano, 2005, pag. 6.
6GABRIELE
SALVATORES in CRISTINA PATERNO’, Il mio thriller alla luce del
sole, intervista su www.cineuropa.org.
7Cfr.
GIANCARLO BASILI in ANTONIO MARALDI (a cura di), Io non ho paura,
cit., pag. 12.

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