Peppino
Impastato muore nel 1978, nel giorno del delitto Moro.
Oscurati dalla tragedia nazionale in atto in quei giorni, la sua
storia e la sua tragica fine resteranno ignoti alla massa per più di
vent'anni, sino all'uscita del film.
Questo
di Giordana, con la scena finale dei pugni alzati nel saluto
comunista e le bandiere rosse sventolanti, potrebbe sembrare un film
di propaganda. In realtà è un film
di impegno civile
(che non si vergogna di citare il Rosi di Le
mani sulla città)
che
si assume il compito di ricordarci che la lotta a quel complesso
fenomeno che passa sotto il nome di mafia non appartiene a una
“parte”.
Elemento
essenziale del successo del film è l'interpretazione di una squadra
di attori
di sorprendente bravura guidati senza sbavature da Giordana, tra cui
si distingue quella di Luigi Lo Cascio, alla sua prima prova e già
premiato con un David
di Donatello.
Anche per il regista Marco Tullio Giordana questo film
rappresenta una sorta di consacrazione che gli permetterà di
continuare quel percorso a lui caro, di rivisitazione della vita del
Paese negli "anni bui", attraverso le esperienze di
personaggi storici o di fantasia (si pensi a La meglio gioventù del
2003), nel solco tracciato, tra gli altri, da Francesco Rosi, Elio
Petri e Ettore Scola.
Il regista evita ogni retorica concentrandosi
giustamente sulla dimensione famigliare.
Tipiche
di questa sua narrazione sono le citazioni musicali o il richiamo ad
avvenimenti che avendo segnato la loro epoca
(il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro in questo caso) ci
fanno immergere pienamente nell'atmosfera e vivere o rivivere i
sentimenti o le angosce di quegli anni.
Si possono tuttavia riscontrare degli anacronismi tecnici.
Una
delle scene più emblematiche della pellicola è quella in cui
vediamo il protagonista Peppino trascinare il fratello minore davanti
la casa del Boss Tano, e dicendo quello che pensa e come si sente, ad
un certo punto, urlare la frase che racchiude in sé il significato
dell'intero film: «Mio
padre, la mia famiglia, il mio paese! Io voglio fottermene! Io voglio
scrivere che la mafia è una montagna di merda! Io voglio urlare che
mio padre è un leccaculo! Noi ci dobbiamo ribellare. Prima che sia
troppo tardi! Prima di abituarci alle loro facce! Prima di non
accorgerci più di niente!».
La
scena si interrompe bruscamente, uno stacco netto del montaggio ci
mostra il finale del film di Rosi Le
mani sulla città,
sulla scritta finale: «I
personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece
la realtà sociale e ambientale che li produce».
Poi vediamo Peppino (in uno degli incontri di “Musica e Cultura”)
che vuole sottolineare proprio l'affinità tra il film e la realtà
che stanno vivendo, ma viene ripetutamente interrotto e non riesce
nel suo intento. La frase è tutt'altro che casuale, il suo
riferimento al film e alla sua storia è volutamente esplicito. E il
fatto che il protagonista voglia sottolinearlo è un ulteriore
rafforzativo, mentre il suo non riuscirci (a causa degli amici che
vogliono a tutti i costi sentire la musica) rappresenta l'avversità
del mondo contro gli ideali, i sogni, le ambizioni di Peppino, il suo
modo di vedere il mondo, quel mondo incarnato dalla città che lui
stesso successivamente chiamerà “Mafiopoli”. Un modo di vedere
il mondo che lo porterà ad essere addirittura esiliato
dal padre,
costretto a vivere in un garage dove si “nutre” di libri e solo
la madre lo va a trovare. La
madre di Peppino
è una delle figure più classiche e allo stesso tempo più insolite
di tutto il film: da una parte rappresenta la classica madre che
perdona sempre il figlio, che lo capisce in ogni circostanza, e lo
sostiene qualsiasi cosa faccia; dall'altra è l'unica che infrange
senza problemi le direttive della mafia, come se non corresse o non
potesse correre mai nessun pericolo, come se fosse al di sopra delle
regole, che infrange con assoluta disinvoltura e inconsapevolmente
(quasi come se non se ne accorgesse). Una disinvoltura che le viene
trasmessa dalla grande forza materna che la contraddistingue.
La
scena finale del funerale del protagonista, a metà tra un classico
funerale e una manifestazione politica, simboleggia totalmente i
tratti caratteristici del protagonista. Il
regista vuole trasmettere il messaggio della provocazione di Peppino:
capace di provocare e fare scandalo anche dopo essersene andato.
Trasposizione
su pellicola
Già nel ’78 la storia
di Peppino aveva ispirato due efficaci servizi televisivi di Michele
Mangiafico e di Giuseppe Marrazzo.
L’idea di fare un film
sulla vicenda viene, nel 79 al regista Gillo Pontecorvo. Egli arriva
a Cinisi per un’indagine preliminare, si informa se nella vita di
Peppino c’era qualche ragazza, chiede per quale motivo la gente
avrebbe dovuto dare ascolto a Peppino e al suo messaggio, sparisce
senza dare più notizie.
Nel 1993 Claudio Fava e
il regista Marco Risi preparano, per Canale 5, un servizio su
Peppino, il primo di una serie intitolata “Cinque delitti
imperfetti”, quelli di Impastato, Boris Giuliano, Giuseppe
Insalaco, Mauro Ristagno e Giovanni Falcone.
Nel 1995 ci prova il
regista Antonio Garella, che prepara un video, poi inspiegabilmente
non più trasmesso, per la trasmissione televisiva “Mixer”. C’è
anche qualche “Piovra” televisiva che si ispira al caso di un
giovane impegnato contro la mafia, che lavora in una radio libera.
Nel 1998 è la volta del
giovane regista Antonio Bellia con un video di 32 minuti dal titolo
“Peppino Impastato: storia di un siciliano libero”, distribuito
da “Il Manifesto”.
Contemporaneamente
Claudio Fava e la sua compagna Monica Capelli cominciano a lavorare
su una sceneggiatura, mi richiedono una copia delle registrazioni di
Radio Aut, concorrono al Premio Solinas, che vincono, e con il quale
si ottengono una parte dei fondi per finanziare il film. Il lavoro di
regia viene affidato a Marco Tullio Giordana, già autore di alcuni
films d’impegno, come “Maledetti vi amerò” (1980) e “Pasolini,
un delitto italiano” (1995), autore anche di un romanzo edito nel
1990 “Vita segreta del signore delle macchine”: come scritto in
un settimanale, si ritrova nella sua opera “l’ossessivo filo
conduttore del confronto con la memoria”.
Giordana,
con molto scrupolo professionale, individua i luoghi, ascolta le
testimonianze, recepisce i suggerimenti di modifica di alcune parti
di sceneggiatura, assume gli attori, in gran parte locali e, comunque
siciliani: tra di essi Luigi Lo Cascio, un attore di teatro alla
sua prima esperienza, che recita la parte di Peppino,, cui somiglia
in modo impressionante, Lucia Sardo, ottima interpetre della madre di
Peppino, Gigi Burruano, il padre di Peppino, che conferisce al suo
personaggio una drammatica e toccante umanità, Tony Sperandeo, ormai
specializzato nella parte del mafioso e, in questo caso di Tano
Badalamenti, Claudio Gioè, interamente dentro la parte di Salvo
Vitale. Il film crea scalpore ed entusiasmo a Cinisi, coinvolge
l’intero paese e riesce ad ottenere molti più risultati di quanti
non se ne erano conseguiti in vent’anni di lavoro politico.
Dopo alcuni mesi di
intenso impegno, grazie anche al sostegno del giovane produttore
Fabrizio Mosca, Giordana riesce a concludere il lavoro e partecipa,
il 31 agosto, al Festival di Venezia: l’effetto è subito
sconvolgente: dodici minuti di applausi, entusiasmi, premio per la
migliore sceneggiatura, leoncino d’oro a Lorenzo Randazzo, che
interpreta la parte di Pappini bambino.
Man mano che esce nelle
sale cinematografiche, il film
continua a raccogliere consensi, a suscitare emozioni e si
conclude costantemente con applausi spontanei e forti momenti di
commozione: il regista ha saputo creare un prodotto equilibrato in
ogni sua parte, calato quasi totalmente nel fatto reale e che ruota
in una serie di tematiche ancora presenti nella memoria, dalla
splendida utopia del ’68 alla forza delle idee della sinistra
extra-parlamentare, alla dinamica dei conflitti familiari nel
triangolo padre-madre-fratello, all’intuizione dell’uso politico
dello strumento radiofonico, all’entusiasmo giovanile dei compagni
di lotta, alla creatività degli hyppies e dei movimenti del ’77,
alla crudeltà di un sistema che non esita a ricorrere alla morte nei
confronti di chi lo smaschera e ne denuncia i misfatti. Le scuole
di tutta Italia, le università, le associazioni culturali scoprono
Peppino Impastato e proiettano il film aprendo dibattiti su questa
pagina di storia e di vita.
Il film è scelto anche
per rappresentare l’Italia all’Oscar, come miglior film
straniero, ma non avrà la fortuna di concorrere alla fase finale del
premio per le stesse ragioni a suo tempo avanzate per “Il Postino”:
è un film “comunista”, o quantomeno un film in cui il comunismo
è considerato una “positiva” scelta di vita: per gli americani è
meglio lasciar perdere. In compenso, nell’aprile del 2001 il film
vince cinque David di Donatello, tra i quali quello per la scuola e
quello per io miglior attore protagonista, Luigi Lo Cascio.
Fonti:
http://www.peppinoimpastato.com/i_cento_passi_film.htm
http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=29253
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