Uscito nel gennaio del 1997, Nirvana arriva dopo la pausa più lunga della carriera di Salvatores, escludendo quella tra i primi due film, quando il suo lavoro era ancora prevalentemente teatrale.
La “gestazione” di Nirvana è molto lunga anche e soprattutto perché è il film produttivamente più complesso del regista, che ha richiesto una lunga fase di pre-produzione, sia in fase di scrittura che in fase tecnica di allestimento.
Con questo film, Salvatores tenta un esperimento molto ambizioso: un film di fantascienza tutto italiano, dal respiro però internazionale, pensato in grande. Mette anche in atto una “sfida al sistema”, continuando in qualche modo la stessa sfida portata avanti dai protagonisti di Sud: fa convivere mondi che paiono inavvicinabili, mescola videogiochi e filosofia zen, reale e virtuale, universi paralleli e periferie urbane, divi internazionali e i vecchi attori della compagnia dell’Elfo. Ambienta la storia nel 2005, ma riprende temi e argomenti di uno dei suoi spettacoli teatrali di inizio anni Ottanta: Il gioco degli dei liberamente tratto dall’Odissea e da “2763 romanzi e fumetti di fantascienza”.
C’è da dire che, più che su un mondo parallelo (la virtualità, il videogioco), Salvatores si interroga sui rapporti con questo mondo parallelo: leggendo tutto il film con questa ottica si può notare una qualche dicotomia che lo attraversa dall’inizio alla fine. Lo stesso genere cinematografico con cui Nirvana è catalogato, la fantascienza, diventa riduttivo se non lo si pone in raccordo con i numerosi episodi comici che costellano il film, perlopiù incarnati dai personaggi interpretati da Abatantuono e Rubini.
Un altro degli argomenti che ritornano e che è sempre stato molto forte all’interno della filmografia del regista è il rapporto con le altre culture (di nuovo: mondi separati che comunicano), tendenzialmente quelle che definiamo più povere e arretrate: tutta la storia è ambientata in un ipotetico Agglomerato del Nord, una città senza indicazioni di nazionalità, un non-luogo metafora di un mondo che diventa sempre più piccolo, con al suo interno delle periferie che sono veri e propri mondi paralleli. Marrakech, Bombay City, Shangaitown sono ghetti che corrispondono ai vari Sud del mondo, «specchio degli incubi di chiunque viva nelle metropoli di fine millennio: melting pot violento, la forbice delle differenze sociali sempre più divaricate, la predisposizione a commerci agghiaccianti, per esempio il commercio di organi».
Il tema non è nuovo, per la precisione è lo stesso di Marrakech Express: anche là i quattro amici andavano alla ricerca di un passato inseguendo una fotografia (una rappresentazione della realtà); qui si aggiunge l’elemento del vetro rotto, simbolo dell’usura del tempo, che però è a senso unico: solo Lisa si è resa conto che la loro storia è finita, per Jimi sarebbe potuta andare avanti: infatti non ha mai cambiato il vetro, semplicemente ignora che è rotto.
La seconda storia è quella che prende vita nel videogame. Prende vita è la definizione più corretta perché il gioco è stato infettato da un virus che ha fornito il protagonista, Solo (interpretato da Diego Abatantuono), di una specie di coscienza. Ora egli si rende conto di essere finto, di agire in un mondo virtuale, di non poter uscire e non poter diventare umano (cosa che avrebbero voluto alcuni produttori americani che avevano letto la sceneggiatura). Sa che sta ripetendo all’infinito una simil-vita perennemente in mano ad altri che giocano con lui e di fronte a sé non ha che una scelta, quella di essere cancellato.
Ecco che il mondo dei videogiochi prende in prestito dalle filosofie orientali la teoria delle reincarnazioni: è quello a cui è sottoposto Solo, una sorta di samsara elettronico da cui non può uscire, un ciclo di morte e rinascita di cui vede il confine (ne ha preso coscienza grazie al virus, ma gliel’ha fisicamente indicato Jimi: è dietro un armadio, simbolo rilkiano di travestimento e recita), ma che non può attraversare. Solo aspira al suo Nirvana, non quello del gioco, ma quello della religione buddista: chiede di terminare il ciclo di reincarnazioni al quale è sottoposto suo malgrado.
Nel farlo, offre a Jimi l’occasione per dimostrare di essere ancora vivo e di poter uscire dall’inettitudine nella quale si è lasciato scivolare nel corso dell’ultimo anno.
Con una umanità sorprendente chiede al suo creatore, al suo Dio, la prima volta che riesce a comunicare con lui, di essere cancellato: “Quella è la vita che ti sei scelto, chi ti dice che sia vera? Guardati intorno, avrai sicuramente tante belle cose, una bella casa... Ma pensa se tutte le cose che vedi non esistessero, se fosse come qui da me, se tu fossi come me! Sai qual è l’unica cosa che non posso fare qui dentro? È smettere di giocare. Tu invece puoi farlo... e allora smetti di giocare! Se riesci a farlo sei vivo. Cancellami Jimi!”.
Immediatamente prende forma quella che è una delle tematiche più ricorrenti nel cinema di Salvatores, sicuramente quella che domina più di tutte all’interno di Nirvana: il rifiuto del gioco, lo stesso che avevamo visto alla fine di Kamikazen quando Frank Zappa (interpretato da Paolo Rossi), di fronte alle regole spietate del mondo della televisione, decide di non giocare e recita Il suicidio del comico. È la stessa idea che Diego Abatantuono aveva già incarnato una volta al termine di Mediterraneo, quando, tornato in Grecia completamente disilluso dalla realtà italiana del dopoguerra aveva detto: “Non ci hanno lasciato cambiare niente. Allora ho detto: avete vinto voi, ma almeno non riuscirete a considerarmi vostro complice!”.
Solo non vuole giocare, e nel chiedere a Jimi di cancellarlo gli fa aprire gli occhi sulla realtà che lo circonda: Jimi capisce che la stessa Okosama Star, la multinazionale giapponese per la quale lavora e alla quale deve consegnare il gioco a cui sta lavorando, è il “videogioco” nel quale lui si sta muovendo, né più né meno del protagonista virtuale del suo Nirvana.
Il binomio virtualità-realtà offre parecchi spunti interessanti se viene applicato ad un’altra delle novità di questo film all’interno della produzione di Salvatores: con Nirvana «le figure femminili acquistano una forza “muscolare”, un tono che, precedentemente, all’interno delle amicizie virili preferite da Salvatores non avevano».
Il regista ama definire questa pellicola un film psichedelico, piuttosto che fantascientifico. Sorvolando sul senso di allucinazione che può evocare la parola, l’aggettivo apre una riflessione nel momento in cui lo si legge come «un lavoro che cerca di aprire le porte della percezione», quindi un film che lavora sulla psiche.
Fonti:
PAOLA JACOBBI, La sfida di Salvatores, «Rivista del Cinematografo», nn.1/2, Gennaio-Febbraio 1997, pag. 23.
ALBERTO CRESPI, Nirvana, «l’Unità», 25 Gennaio 1997.
DEMETRIO SALVI, Nirvana, «Cineforum», n. 1, Gennaio-Febbraio 1997, pag. 80.
GABRIELE SALVATORES in GIANNI CANOVA (a cura di), Nirvana. Sulle tracce del cinema di Gabriele Salvatores, pag. 52.

Nessun commento:
Posta un commento