«A metà
degli anni settanta una banda di delinquenti di strada partì dalle
periferie per conquistare Roma. Per inseguire il loro sogno ingenuo e
terribile travolsero ogni ostacolo. Strinsero alleanze pericolose. Si
credevano immortali. La nostra storia è ispirata a fatti reali. I
personaggi sono frutto dell'immaginazione degli autori».
Un
film all'americana, tra ricostruzione e impegno civile: l'opera più
compiuta di Michele Placido. Mantenendo un profilo costante, il film, del 2005, scorre
senza problemi, senza far pesare allo spettatore le sue due ore e
ventisei minuti. Il ritmo è serrato, e non concede alcuna
distrazione allo spettatore. È come un vortice che risucchia lo
spettatore senza lasciargli il tempo di respirare o di scendere dalla
vorticosa giostra di crimini e misfatti che il regista Placido (con
il sostegno degli sceneggiatori) ha abilmente costruito.
I
personaggi risultano credibilissimi, merito soprattutto degli
interpreti, perfetti per quei ruoli.
Placido
gira un film buio e oscuro: non solo a causa delle tematiche
trattate, ma anche per via del registro stilistico che va ad
utilizzare, ottimo rafforzativo per il contenuto del film.
Il
film è diviso in tre capitoli, ognuno dei quali prende il nome del
protagonista che andrà ad indagare. In ordine di apparizione sono:
Il Libano, Il Freddo, Il Dandi.
Fin
dal prologo si può intuire che genere di film sarà e che brutta
fine faranno i protagonisti. Si assiste infatti ad un furto di auto
da parte di quattro giovani ragazzi, del successivo sfondamento di un
posto di blocco della polizia, al raggiungimento del covo, al
malessere di uno di loro (Il Grana) dovuto all'incidente, fino
all'arrivo della polizia e alla successiva fuga. Sarà proprio la
morte in quel frangente del Grana ad avere una valenza premunitrice
dell'intero film, come poi verso la fine della storia dirà Il Freddo
in veste confessionale, ormai sconfitto nel corpo e nell'anima,
rimpiangendo solo per un istante la vita fatta.
Nella
scena della discoteca (appena acquistata da Libano), assistiamo ad
una alternanza di sequenze in netta contrapposizione tra di loro, che
ci vanno a mostrare le due facce della stessa medaglia. Da una parte
le sequenze della festa dell'inaugurazione, dove tutti sono felici,
ballano e brindano, con sottofondo la canzone “Lady marmalade”;
dall'altra quelle riprese dai telegiornali dell'epoca (un'insieme di
immagini di cadaveri, cortei, funerali), che mostrano i risultati di
quella che fu una vera e propria guerra tra la malavita romana in
quel periodo (guerra preannunciata dagli stessi protagonisti
all'inizio del film).
Questa
sopra citata però, non è l'unica scena in cui il regista sceglie di
inserire immagini che riprendono fatti importanti della storia del
nostro paese, scene estrapolandole dai Tg del periodo (che vanno
dall'omicidio di Aldo Moro alla strage di Bologna del 2 Agosto 1980,
fino alla vittoria dei mondiali di calcio nel 1982) proprio allo
scopo di dare una maggiore valenza veridicità alla pellicola, in
modo che si imprima indelebilmente nella mente dello spettatore.
La
scena della morte del Nero, verso la fine del film, è estremamente
significativa. Avviene quando quasi tutta la banda è in galera, e
sottolinea il cambiamento definitivo dello status della situazione.
Cambiamento sottolineato dall'irrompere prepotentemente nello schermo
della voce di Pavarotti con la canzone “Nessun dorma”, proprio ha
dare una valenza di rafforzativo del fatto che ormai più nessuno è
al sicuro né potrà più esserlo, ma soprattutto che la quiete di un
tempo non tornerà, è persa per sempre. Il Nero è il personaggio
più criptico dell'intero film: è sfuggevole e sempre indisparte,
quasi intoccabile (forse perché è l'unico proveniente da una
famiglia ricca). Muore in una sparatoria durante una “missione”,
e cadendo, dopo essere stato colpito, sfonda una vetrina. Il
personaggio si ritrova ad esalare i suoi ultimi respiri affianco ad
un manichino sorridente, e guardandolo negli occhi, scrutando il suo
finto sorriso, ha quasi la sensazione che quell'omunculo di plastica
si stia facendo beffe della sua morte. Questa scena simboleggia la
presa di posizione del regista di fronte a fatti di questo tipo,
ovvero quanto sia stupido gettare via la vita per motivazioni così
futili, e che fine tragica ma allo stesso tempo ironica fanno le
persone che scelgono simili strade.
Il
film presenta un doppio finale: da una parte quello della realtà,
dove è avvenuto anche l'ultimo regolamento di conti e sono tutti
morti; mentre dall'altra quello dell'immaginario del regista che vede
i quattro ragazzi, apparsi all'inizio della pellicola, finalmente
riuniti che riescono a scappare dalle grinfie della polizia correndo
felici per la spiaggia. Finale quest'ultimo idilliaco, che ci mostra
allo stesso tempo un universo alternativo (un diverso modo di come
sarebbero potute andare le cose) e la riunione dei quattro amici
nell'aldilà.
Fonti:

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